Un assiduo lettore, mi ha segnalato un articolo pubblicato su “Il Giornale” del 17 maggio scorso. Si scrive di Giovanni Passannante e del suo destino infame: dichiarato pazzo ed internato, alla fine di un lungo calvario, in un manicomio criminale, alla sua morte, fu dichiarato incline a delinquere. Tuttavia nessuno si preoccupò, o meglio, si occupò di approfondire i motivi che lo spinsero ad attentare nel 1878 alla vita dell’usurpatore Umberto I, o di verificare gli ambienti dai quali egli proveniva. Fu liquidato come pazzo dagli “scienziati lombrosiani” in quanto meridionale e quindi antropologicamente predisposto a delinquere: predisposizione che i lombrosiani, evincevano dalla forma del cranio.

Fino a che Nino Materi su “Il Giornale”, appunto, non ci svela che il reale contenuto della prima perizia psichiatrica svolta su Passannante ne attestava il pieno stato di sanità mentale.

Ma allora perché doveva essere un pazzo criminale? Lo furono anche Acciarito e Bresci? Cominciamo questo excursus sulla vita di quest’uomo per dimostrare i due pesi e le due misure da sempre attuati dallo stato italiano nei confronti del meridione e dei suoi cittadini e come, nonostante il regime ed il potere dell’epoca affermassero il contrario, il gesto di un “pazzo” sensibilizzò, per vari aspetti, l’opinione pubblica di mezza Europa.

Giovanni Passannante nacque a Salvia di Lucania (PZ) il 19 febbraio 1849. All’epoca dell’occupazione piemontese, quindi, aveva 11 anni appena compiuti e in quell’anno e negli anni successivi deve averne viste proprio tante tra ingiustizie, soprusi e maltrattamenti ai danni del popolo dell’ex Regno borbonico. Autodidatta, trasferitosi a Potenza per lavorare, vi conobbe l’ex capitano dell’esercito napoleonico Giovanni Agoglia, anch’egli originario di Salvia, che lo prese sotto la sua protezione, assumendolo come domestico e assegnandogli un vitalizio con il quale Passannante migliorò la sua istruzione. Cominciò a frequentare circoli filomazziniani ed entrò in contatto con alcuni esponenti internazionalisti di Salerno. Le sue frequentazioni repubblicane, furono anche la causa dei suoi primi guai: Passannante fu arrestato la notte tra i 15 e il 16 maggio del 1870, mentre affiggeva proclami rivoluzionari contro il governo monarchico e il papato e che inneggiavano alla repubblica. Scontò tre mesi con l’accusa di sovversione. Uscito di prigione tornò a Salerno e aprì la Trattoria del Popolo dove spesso i poveri mangiavano gratis. Il locale fu chiuso nel dicembre del 1877, ma in quei sei anni, Passannante entrò in contatto con gli ambienti anarchici della Società Operaia di Pellezzano e della Società di Mutuo Soccorso degli Operai. Poi, nel giugno del 1878, si trasferì a Napoli dove visse di piccoli lavoretti. Fu qui che pianificò l’attentato. Quando si seppe della visita di Umberto I in città vi furono diverse proteste di matrice internazionalista, represse dalle autorità.  Il 17 novembre 1878, quando il corteo reale giunse all’altezza del “Largo della Carriera Grande”, Passannante attese il momento giusto per avvicinarsi alla carrozza degli usurpatori Savoia, salì sul predellino e con un coltello che teneva nascosto, tentò di accoltellare Umberto I al grido “Viva Orsini! Viva La Repubblica Universale!”. L’usurpatore riuscì a difendersi e Passannante, ferito alla testa dalle guardie, fu subito tratto in arresto. Da qui inizia il suo calvario e la vile persecuzione dei Savoia nei suoi confronti e della sua famiglia.

L’attentato sconvolse l’opinione pubblica e produsse opposti sentimenti: ai cortei pro-Savoia, si contrapposero coloro che elogiarono l’attentatore. Il giorno successivo a Firenze venne lanciata una bomba contro un corteo monarchico e qualche giorno dopo a Pisa la scena si ripeté. Lo stesso Giovanni Pascoli fu arrestato in seguito alla condanna di Passannante per aver manifestato in favore degli anarchici. Il giornale anarchico svizzero L’Avant-Garde pubblicò un articolo in favore di Passannante dove veniva definito di “natura energica”; su pressione delle case reali di Germania, Russia, Italia, Spagna, il governo svizzero fu costretto a sopprimere il giornale per non turbare i rapporti diplomatici con queste nazioni. Anche Francesco II non fu tenero con l’attentatore, definendo la Basilicata “un nido di comunisti partigiani”.

Altri giornali europei condannarono l’attentatore rivolgendogli diverse accuse prive di fondamento o puramente inventate: Il Republique Française di Parigi sostenne che dietro Passannante ci fossero la Chiesa e gli ex regnanti borbonici;  L’Arena di Verona e il Corriere della Sera lo definirono un brigante, mentre, in una litografia pubblicata a Torino, venne riportato che il padre di Passannante era un camorrista e che suo figlio fu educato con sentimenti di odio e di disprezzo per la libertà italiana; La Stampa scrisse che Passannante era già stato rinchiuso in passato a Rocca d’Anfo e nel forte di Fenestrelle, descrivendolo come un «omiciattolo cachettico, smilzo, butterato dal vaiolo». Come noterete, in Italia l’informazione è sempre stata libera.

Tuttavia quando il Koelnische Zeitung auspicò che l’attentato servisse come monito allo Stato italiano per comprendere meglio i bisogni del ceto subalterno e il Daily News vide nel malcontento e nella miseria i fattori che spinsero l’anarchico ad armarsi, al Sud si ebbe, come conseguenza, il primo esempio di assistenzialismo di stato: il Savoia, infatti, spinto dalle critiche dell’opinione pubblica europea, garantì alcuni sussidi al popolo e in comuni come Torre Annunziata, Castel di Sangro, San Buono vennero distribuiti, gratuitamente, cibo e abiti ai più poveri.

La reazione, invece, nei confronti dell’attentatore fu esemplare: La sera stessa dell’attentato il prefetto di Potenza ricevette l’ordine di perquisire l’abitazione dei parenti e di chiunque avesse avuto rapporti con Passannante, inviando i carabinieri a Salvia, ma nella casa dell’anarchico non fu trovato nulla di criminoso.

A Giovanni Parrella, sindaco di Salvia, per ottenere la clemenza, gli fu imposto la modifica del nome della città d’origine dell’anarchico, rinominandola Savoia di Lucania. Il comune cambiò toponimo con regio decreto il 3 luglio 1879. Giustino Fortunato, nel 1913, dirà: «Io non so rassegnarmi che un così bel nome sia andato capricciosamente cancellato!».

L’intera famiglia dell’attentatore fu dichiarata folle e suo fratello Giuseppe, ritenuto affetto da alienazione mentale, fu internato nel manicomio criminale di Aversa. Si saprà, in seguito, che il fratello era malato di febbre palustre che, assieme a una scarsa alimentazione, lo aveva reso anemico. Il padre defunto, che aveva perso i genitori a 9 anni, soffrì di convulsioni che cessarono con l’età ed ebbe problemi di artrite reumatica; la madre, settantaduenne, aveva tremori ed era affetta da neuropatia. I suoi parenti più prossimi e i conoscenti, insomma, furono fatti sparire: no, questi non sono metodi mafiosi!

La mattina del 19 novembre, Passannante fu portato nel carcere di San Francesco e, rinchiuso in una cella di isolamento, mostrò sempre un atteggiamento calmo e impassibile. Sottoposto a esami psichiatrici, risultò sano di mente. Interrogato, affermò che il movente del suo gesto fu la miseria nella quale versava la sua gente e le tasse che erano costretti a pagare. Dichiarò anche di non aver nulla di personale contro Umberto I, ma rancore verso tutti i monarchi. Al processo, davanti al giudice disse: “La maggioranza che si rassegna è colpevole. La minoranza ha il diritto di richiamarla”.  Al termine del processo, il giudice lo condannò alla pena capitale che gli fu commutata in ergastolo, in seguito alla richiesta di grazia, perpetrata dal suo avvocato difensore, con regio decreto del 29 marzo 1879. Da qui parte la vendetta del Savoia: Passannante sconterà la pena a Portoferraio, sull’isola d’Elba nella prigione della Torre della Linguella oggi ribattezzata Torre di Passannante.

La cella era piccolissima, umida, buia, senza servizi igienici e posta sotto il livello del mare. Il pavimento, in terra battuta, permetteva l’infiltrazione di acqua marina, provocando nell’ambiente condizioni di insalubrità.

Attaccato a una corta catena di 18 chilogrammi, che gli consentiva di fare solo due o tre passi, e in completo isolamento, non poté ricevere visite e lettere. Nonostante il Corriere dell’Elba avesse annunciato che “in quella gabbia angusta sarà tenuto per qualche tempo, dipoi sarà posto insieme agli altri a subire la vera pena della galera”, in realtà Passannante visse in quelle condizioni per 10 anni.

Con il passare del tempo tale detenzione influì sulla sua salute, sia mentale che fisica. Nel 1885 l’on. Agostino Bertani e la giornalista Anna Maria Mozzoni, si recarono presso la prigione per sincerarsi delle condizioni di detenzione.

Il politico rimase scioccato per la condizione in cui versava Passannante ed ebbe a dire: “Questo non è un castigo, è una vendetta peggiore del patibolo; il re non sa nulla, non è possibile che lo sappia, egli non tollererebbe un fatto che getta su lui un’ombra odiosa; è una vigliaccheria da cortigiani”. Ma in realtà l’usurpatore sapeva benissimo, poiché una lettera della Mozzoni che lo esortava a intervenire contro le violazioni della pena, non ricevette mai risposta. Bertani e la Mozzoni denunciarono il trattamento inflitto a Passannante, suscitando un enorme scandalo politico e mediatico. Il Savoia lo lasciò impazzire in galera perché gli “attentatori non venivano uccisi, ma veniva loro prolungata la vita affinché sentissero meglio la morte”. Il fascicolo carcerario, conservato in un magazzino di stoccaggio a Perugia, non è tuttora consultabile al pubblico.

Ancora Bertani e la Mozzoni, sollecitarono per il prigioniero, che nel frattempo aveva sviluppato una malattia mentale, una perizia psichiatrica che fu condotta dai professori Serafino Biffi e Augusto Tamburini (gli stessi che lo avevano visitato dopo l’arresto). Questa volta, fu dichiarato insano di mente e nel 1889 fu trasferito, segretamente, presso il manicomio criminale di Montelupo Fiorentino dove morì nel 1910.

E se pensate che l’ossessione savoiarda per Passannante sia finita qui vi sbagliate di grosso. Il 19 ottobre 1909 moriva Cesare Lombroso e proprio per confermare le sue assurde teorie sull’attitudine a delinquere dei meridionali, il cadavere di Passannante fu decapitato, il suo corpo, si crede, gettato in mare e il suo cervello e il suo cranio, immersi in una soluzione di cloruro e zinco, e preservati nel manicomio di Montelupo Fiorentino per poi essere portati alla Scuola Superiore di Polizia associata al carcere giudiziario “Regina Coeli” di Roma. Non è mai stato concesso sapere chi diede tale autorizzazione.

In seguito, nel 1936, i suoi resti e i suoi appunti, vennero trasferiti presso il Museo Criminologico dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia di Roma: il cervello fu immerso in formalina e venne conservato in una teca di vetro sigillato per poi essere ancora oggetto di studio nel 1982 da parte del prof. Alvaro Marchiori dell’Istituto di Medicina Legale de “La Sapienza”. Solo nel 2007, a otto anni dalla firma del nulla osta al trasferimento da parte dell’allora ministro di Grazia e Giustizia Diliberto, il cervello e il cranio verranno tumulati nel paese natio.

Finisce qui l’avventura della vita e della morte di Passannante, il cui gesto ha avuto risvolti per 129 anni!

Ancora oggi la popolazione di Savoia di Lucania è divisa in due comitati opposti: un comitato “pro-Salvia” che rivendica il desiderio di ritornare al vecchio nome “Salvia di Lucania”, in memoria delle torture inflitte a Passannante e del ruolo dei Savoia nella politica Italiana, e un comitato “pro-Savoia” che rivendica l’onore di essere legati alla dinastia sabauda e condanna l’atto compiuto dall’anarchico. Ma questa è un’altra storia.

Vorrei però concludere con alcune doverose osservazioni: il 22 aprile 1897 un altro anarchico, Pietro Umberto Acciarito, di Artena in provincia di Roma, attentò alla vita di Umberto I. Anche lui fallì, anche lui fu arrestato e gli toccò la stessa sorte di Passannante. Tuttavia al suo luogo natio non fu cambiato il nome e la sua famiglia non fu sterminata. Lui sottoposto ad autopsia dopo la morte, in base alla forma del suo cranio, fu dichiarato incline all’assassinio.

Tocca poi aver successo a Gaetano Bresci che uccise Umberto I a Monza il 29 luglio del 1900: “Ho attentato al Capo dello Stato perché è responsabile di tutte le vittime pallide e sanguinanti del sistema che lui rappresenta e fa difendere. Concepii tale disegnamento dopo le sanguinose repressioni avvenute in Sicilia in seguito agli stati d’assedio emanati per decreto reale. E dopo avvenute le altre repressioni del ‘98 ancora più numerose e più barbare, sempre in seguito agli stati d’assedio emanati con decreto reale”.

Queste le sue parole nell’interrogatorio successivo al suo arresto; ma a differenza di quanto era avvenuto per Passannante e Acciarito, perfino Cesare Lombroso affermò che in Bresci non vi erano segni di patologia o tratti criminali, sostenendo che “la causa impellente sta nelle gravissime condizioni politiche del nostro paese”. Questo fece sì che scontasse la pena in carceri meno dure. E non poteva essere altrimenti: Bresci, l’assassino del re usurpatore, era nato a Prato!

d.A.P.

 

 

 

 

 

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