Pochi giorni orsono, il governo ha ottenuto la fiducia in parlamento e ufficialmente tutti possono cominciare a lavorare al cambiamento. Personalmente sono un po’ critico su alcune uscite della prima ora da parte del neo-ministro degli interni, ma totalmente esterrefatto di fronte al qualunquismo del giornalismo italiano. Dalla Gruber su LA7, alle reti Mediaset, alla Rai, ai giornali su carta e on line: non ce n’è uno, con le dovute eccezioni, che non attacchi il neo-nato governo. Signori: sono trascorse poche ore dal giuramento e ancora meno dalla fiducia. Volevate già tutto a posto? Per 40 anni avete subito l’inettitudine dei governi DC e poi di centro destra e sinistra, senza aprire bocca e ora vi sentite in diritto di criticare a priori dopo neanche una settimana? Io appartengo a quelli che pensano che se una critica deve essere mossa, deve per forza di cose essere costruttiva e non demolitrice. Bisogna, per criticare, avere delle alternative da proporre, altrimenti si sfocia, appunto, nel qualunquismo del teorema “se non ci sono io, allora non va bene” tanto caro a Renzi. Tuttavia è evidente il motivo per il quale i mezzi di informazione si sprecano in critiche: questo governo non rappresenta il potere che li finanzia e che vuole, come ha affermato Brunetta dalla Berlinguer, che cada nel più breve tempo possibile, “per il bene dell’Italia”(o il loro?). Io invece, per il bene dell’Italia e del mio Sud, voglio che questo governo lavori, per poi giudicarlo democraticamente alle urne. Tutto il resto è fuffa. Fuffa della stampa e dell’informazione politicamente schierata, come Linkiesta, che ancora sta rosicando per un contratto di governo che non s’aveva da fare. A nessun governo insediato da meno di una settimana è mai stato riservato un trattamento simile: Linkiesta, vuole già sapere del reddito di cittadinanza, dell’immigrazione e di dove verranno trovati i soldi. Piano ragazzi, piano! Perfino al primo governo Berlusconi sono serviti 100 giorni prima di fare qualcosa. E se c’è qualcosa che funziona nei ministeri ben venga, perché va trattenuto e valorizzato; e se Di Maio deve lavorare su ciò che ha fatto Renzi per dar vita al reddito di cittadinanza, facciamolo lavorare; e se poi volete prendervene il merito, fatelo pure: saranno gli elettori a giudicare a fine legislatura. Nessuno ha mai detto di voler smontare ciò che funziona, ma è semplicemente stato criticato il metodo, la lentezza della burocrazia e soprattutto i compromessi con un Europa sempre più ingerente nei nostri affari nazionali a nostro danno e a suo vantaggio. Il problema delle risorse da trovare infatti, e sembra che Linkiesta non lo sappia o faccia finta di non saperlo, risiede proprio nella politica economica europea alla quale dobbiamo sottostare e che abbraccia anche l’immigrazione. Sembra proprio che ai più sfugga il fatto che l’Italia abbia un debito pubblico di oltre 2 mila miliardi pari al 132% del Pil e che se ci troviamo in queste condizioni lo dobbiamo a lor signori per i quali Linkiesta scrive.

Francesco Cancellato, bolla il governo come “Il governo dei pataccari” ma lui, nato nel 1980, non può ricordarsi l’incipit dell’incresciosa crescita del nostro debito pubblico, né, a quanto pare, si è preoccupato di ricercarne le cause tra i pataccari che furono. Cancellato dimentica, infatti, che una seria ripresa dell’economia italiana, passi per forza di cose attraverso la riduzione del debito. Gli suggerirei, quindi, di leggere Keynes secondo il quale per ogni punto di spesa pubblica in più, il moltiplicatore (che misura la percentuale di incremento del reddito nazionale in rapporto all’incremento di una o più variabili macroeconomiche componenti la domanda aggregata come consumi, investimenti e spesa pubblica) incrementa il PIL in modo più che proporzionale rispetto all’intero debito, tale da far migliorare il rapporto debito/PIL. Al contrario, invece per ogni punto di spesa pubblica in meno, il moltiplicatore riduce il PIL in modo più che proporzionale rispetto al totale del debito, facendo peggiorare il rapporto debito/ PIL.

La ricetta è tutta qui, solo che all’Europa tedesca non va giù. Voglio però, brevemente, rinfrescare la memoria a Cancellato sull’inizio della crescita del debito pubblico italiano, visto che nel 1981 lui era solo un neo-nato (come l’attuale governo). Fino a quell’anno, infatti, l’Italia aveva la quota di spesa pubblica in rapporto al PIL pari al 41,1%, la più bassa tra gli Stati Europei, mentre il rapporto tra debito pubblico e PIL era fermo (dati 1980) al 56,86%. Poi nello stesso anno (1981) viene sancito il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro ad opera di Andreatta e Ciampi con una congiura epistolare e senza passare per il parlamento violando apertamente i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale ed eseguendo non meglio precisati ordini sovranazionali.

Il tutto giustificato dal fatto di voler controllare l’inflazione generatasi dalla crisi petrolifera del 1973 e dal dover rendere possibile l’entrata dell’Italia nello SME (all’epoca il Sistema Monetario Europeo). Così se prima la Banca d’Italia acquistava tutti i titoli non collocati presso gli investitori privati per garantire il finanziamento della spesa pubblica, la creazione della base monetaria e la crescita dell’economia reale, dal 1981 lo stato si trovò a dover collocare i titoli del debito pubblico sul mercato finanziario privato a tassi decisamente più alti. La conseguenza fu la smisurata crescita della spesa per interessi passivi che dal 5% circa del 1975, passò al 25% del 1995. E se consideriamo i valori assoluti, la spesa per interessi passivi, aumentò dai 28,7 miliardi di Lire del 1981 ai 147 del 1991, mentre il rapporto debito/PIL passò dal 56,86 del 1980, al 105,20% del 1992.

Proprio nel 1992 la situazione italiana fu aggravata dalla scelleratezza dei nostri politici, i quali, aderendo al Trattato di Maastricht, imponevano all’economia italiana, il rispetto di vincoli paralizzanti per l’economia, tra i quali proprio la diminuzione del debito pubblico. L’osservanza di questi parametri diventò poi il ricatto attraverso il quale furono adottate le sconsiderate politiche di privatizzazioni e svendita a capitali privati e stranieri di asset pubblici strategici. Durante la crisi finanziaria del 2008, il governo Berlusconi, con Tremonti all’economia, dimissionario nel 2011, lasciò l’Italia con un rapporto debito/PIL pari al 120,10; alla fine della “cura” Monti e Letta, il rapporto passò al 134,2 per poi scendere al 131,5 a tutto il 2017.

Tuttavia l’errore di fondo, risiede nel fatto di considerare per certo che il debito pubblico italiano cresca per un eccesso di spesa pubblica. In Italia, nel caso della spesa per il pubblico impiego, la quota di dipendenti pubblici in Italia è pari al 5,8% sul totale della popolazione, a fronte del 9,2% del Regno Unito e del 9,4% della Francia; inoltre, la nostra storia economica ci conferma, attraverso i dati, come dal 1991 al 2008, l’Italia abbia costantemente registrato un “avanzo primario”, cioè una differenza tra entrate e spese dello Stato, in attivo e al netto degli interessi.

Alla luce di quanto esposto, si può concludere, che l’attuale debito pubblico derivi esclusivamente dalla separazione tra Bankitalia e Tesoro. Se si considerano poi i dati macroeconomici della crescita del deficit e del debito rispetto al PIL, ci si rende conto come dipendano esclusivamente dalla spesa per interessi passivi e non da aumenti della spesa corrente o per investimenti. Cosa significa? Semplicemente che l’Italia ha già ripagato il suo debito reale e che l’attuale stock è esclusivamente composto dagli interessi su di esso. Di questo devono rispondere i politici pataccari che ci hanno governato in questi anni e quelli che nel 1981 ci hanno messo in questa situazione svendendo il paese e gettando il Sud in una situazione disperata.

Lo spiega bene Andrea Del Monaco nel suo libro “Sud Colonia Tedesca”, che vi invito a leggere, quando dimostra come i vincoli europei di bilancio blocchino gli investimenti e separino sempre di più il Sud dal Nord Italia e il Sud Europa dal Nord Europa. Ad ammetterlo è la stessa Commissione Europea nel suo Country Report sull’Italia del 2016-17. Dal 2013 ad oggi il Sud Italia patisce una progressiva riduzione della spesa in conto capitale a causa dell’impegno dei governi a ridurre progressivamente l’indebitamento netto (cioè non considerando gli interessi) fino all’azzeramento nel 2019. La conseguenza di questo impegno è sotto i nostri occhi: riduzione degli investimenti, in particolare nel Mezzogiorno. “Un esempio concreto è il rinvio della spesa del Fondo Sviluppo e Coesione (FSC) del ciclo 2014-2020, Fondo interamente italiano destinato per l’80% al Mezzogiorno: la Legge di Stabilità 2016 pospone la spesa di 29,7 miliardi (su 38,7 miliardi di dotazione del FSC) a dopo il 2019. La Legge di Bilancio 2017 aumenta la dotazione totale del FSC a 46,6 miliardi, e, nel contempo, pospone la spesa di 35,1 (su 46,6) miliardi di FSC a dopo il 2020. Il FSC è necessario al Sud perché contribuisce a finanziare opere importanti: la dorsale ferroviaria Napoli-Bari-Lecce-Taranto, la dorsale ferroviaria Salerno-Reggio-Calabria, la dorsale ferroviaria Messina-Catania-Palermo e l’autostrada Sassari-Olbia. Tali opere costano 13,6 miliardi: al 30 giugno 2016 sono stati spesi per la loro realizzazione 2,38 miliardi; per completarle servono altri 11,27 miliardi”. Tuttavia lo strabismo europeo nei confronti dell’Italia e dei paesi cosiddetti PIIGS, sta nel fatto che gli attuali vincoli di bilancio UE computino nel rapporto Deficit/PIL l’indebitamento per completare tali opere. Facciamo un passo indietro per capire meglio: come detto “nel 1992, il Trattato di Maastricht impone i vincoli sul debito (60% del PIL) e sul deficit (3% del PIL); nel 1997 viene introdotto il Patto di Stabilità; nel 2003-2004, dopo lo scontro dell’allora presidente della Commissione Europea, Romano Prodi, con Francia e Germania, si allenta il Patto di Stabilità per volontà di Parigi e Berlino; dopo la crisi del 2011, si irrigidisce il Patto di Stabilità, tramite il Fiscal Compact, il Two Pack e il Six Pack (ulteriori misure per il controllo del deficit e del debito); e così si riduce notevolmente la possibilità per gli Stati Membri della UE di indebitarsi per investire. Con il MES (attuale Meccanismo Europeo di Stabilità) si crea un Leviatano moderno, uno strumento legibus solutus, poiché il Trattato che istituisce il MES conferisce l’immunità ai suoi luoghi e ai suoi dirigenti. Ma l’indebitamento è sempre vizioso? No, l’indebitamento per il contributo italiano all’assistenza agli Stati UEM in difficoltà finanziaria, è considerato virtuoso ed è stato scomputato dal computo del rapporto Deficit/PIL: tale contributo italiano dal 2010 al 2014 è stato pari a 60 miliardi. Cosa significa? In soldoni che i sei miliardi che occorrono per completare la Napoli-Bari-Lecce-Taranto rientrano nel Patto di Stabilità e sono computati come indebitamento “cattivo”, mentre resta fuori dal Patto di Stabilità l’indebitamento italiano per 60 miliardi per salvare le banche greche e spagnole, cioè le banche francesi e tedesche, e che perciò viene considerato “buono”. In pratica il MES, blocca il deficit per gli investimenti in Italia, ma ci permette di indebitarci per 60 miliardi per salvare le banche franco-tedesche. Inoltre, aggiunge Del Monaco, “la possibilità di fare deficit per investire potrebbe essere totalmente cancellata qualora fosse approvata la proposta tedesca di una nuova direttiva europea sul secondo bail-insul debito sovrano: le banche degli Stati del Sud Europa dovrebbero vendere i rispettivi titoli di Stato posseduti che eccedono il 25% del loro patrimonio netto, gli spread dei titoli di Stato del Sud Europa verso i Bund risalirebbero, i tassi di interesse negli Stati del Sud Europa salirebbero e sarebbe impossibile fare deficit per investire. Diversamente, occorre evitare una simile direttiva UE e scomputare totalmente dal computo del rapporto Deficit/PIL gli investimenti”. Ma cosa permetterebbero di fare maggiori investimenti in deficit o semplicemente lo sblocco di tutti i fondi della Coesione Territoriale per il Sud? Quale sarebbe il ritorno economico? Del Monaco cita una proposta del prof. Canesi del Politecnico di Milano: “Trasformare il Mezzogiorno in una base logistica per un nuovo bacino produttivo nel Mediterraneo, alternativo all’UE attuale, subordinata alle industrie tedesche. A riguardo occorrono tre interventi: trasformare Taranto, Gioia Tauro e Crotone nei quartieri generali della logistica mondiale dove concentrare la scomposizione-ricomposizione dei container, l’assemblaggio, il confezionamento e l’imballaggio delle merci; connettere la dorsale ferroviaria tirrenica e la dorsale adriatica tramite Potenza, e, nel contempo, trasformare la dorsale ferroviaria Napoli-Palermo in una ferrovia Alta Capacità che passi nell’entroterra meridionale toccando Potenza, Cosenza, Catanzaro, Reggio Calabria, Messina; la creazione di tre nuove città policentriche ovvero il recupero del patrimonio abitativo esistente in tre sistemi insediativi al cui interno ogni spostamento avverrebbe in massimo 60 minuti grazie all’interazione tra Alta Capacità e un adeguato servizio ferroviario regionale”. Questo, per esempio, è quello che non ci permettono di fare! Ed è la linea che voleva seguire anche il prof. Savona al quale è stato precluso il ministero dell’economia, gira voce, da (udite, udite) Mario Draghi in persona. Esponenti di due visioni massoniche opposte (progressista Savona, conservatore Draghi) il professore, per il numero uno della BCE, non sarebbe stato l’uomo adatto a risanare l’Italia, per tutto ciò che abbiamo detto finora. Ricapitolando: il governo adesso c’è, la massoneria pure (non è mai andata via) e l’Europa? No, quella no! C’è invece la Germania che ha sfrenato bisogno di spazio vitale, o come diceva qualcuno tanto tempo fa Lebensraum! Intendiamoci: i tempi sono cambiati e la teutonica culona non ha intenzione di invaderci con i carrarmati…no, ma tenerci al guinzaglio per favorire la sua economia e il suo surplus commerciale sì. La Germania da oltre 16 anni continua ad esportare più di quanto importa, accumulando crediti finanziari nei confronti dell’Europa e del resto del mondo. E non si tratta certo di una coincidenza, ma delle conseguenze del Quantitative Easing e delle politiche monetarie della BCE tanto care a Draghi e alla “fazione”, se la si può chiamare così, conservatrice della massoneria. Il surplus tedesco è il più alto al mondo e la Germania potrebbe trovarsi di fronte al fatto di non poter più riscuotere quello che le spetta, per insolvenza dei debitori. Come fare allora per ottenerlo? Un’idea sarebbe quella di “invadere” i paesi che si trovano in passivo commerciale con la Germania attraverso la commercializzazione di prodotti, merci e manufatti tedeschi (favorendo industria e aziende tedesche) in cambio di cospicue concessioni sul debito. Esempio banale: mi devi 100 ma se mi fai vendere la mia carne di maiale lì da te, eliminando la tua, le “perdite commerciali” che patiresti, io te le “finanzio” decurtandole dal debito. Così tu non hai più la tua carne di maiale, però il tuo passivo commerciale è diminuito. Potremmo, per assurdo, arrivare a questo e quindi ad un’Europa tedesca e ad una sola economia che però è sempre tedesca!

Colonie di Berlino: Tremonti aveva ragione, così come Giulio Andreotti che successivamente all’unificazione tedesca, quasi prevedendo l’attuale situazione economica, disse di amare talmente la Germania da preferirne due.

“Il nostro popolo deve trovare il coraggio di unirsi e usare la sua forza per avanzare lungo la strada che lo porterà dall’attuale ristretto spazio vitale verso il possesso di nuove terre e orizzonti, e così lo porterà a liberarsi dal pericolo di scomparire dal mondo o di servire gli altri come una nazione schiava” (A. Hitler – Mein Kampf).

Nel 2003-2005 la Germania in crisi, soprannominata il malato d’Europa, ottenne, battendo i pugni sul tavolo,  di sforare per 3 anni consecutivi il limite del 3% del rapporto deficit/Pil, beneficiando così di alcune decine di miliardi supplementari per finanziare gli investimenti che le consentirono la ripresa e le hanno permesso di diventare ciò che oggi è; all’Italia, invece, l’Europa dominata dalla Germania, non lo permette, giudicandolo un metodo inaffidabile.  Questa, in sintesi, la parafrasi della citazione del Mein Kampf emblematica del percorso lungo il quale la politica economica europea si è incamminata.

Tuttavia io preferisco di gran lunga Arthur Schopenhauer: “Dovunque e comunque si manifesti l’eccellenza, subito la generale mediocrità si allea e congiura per soffocarla”. È quello che accade in Italia e in Europa in questi giorni: tutti, dai giornali fino alla BCE di Draghi, contro il nuovo governo; a prescindere. Forse perché hanno compreso il vantaggio che l’Italia e il Sud Italia hanno acquisito nei loro confronti: un governo fuori dal sistema, libero dai ricatti mitteleuropei e quindi imprevedibile.

Ed è proprio l’imprevisto a spaventare maggiormente i burocrati europei, perché esso è caratterizzato da una estrema libertà e perché, in situazioni simili, resta l’unica speranza.

d.A.P.

 

 

 

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