La seconda parte della discettazione di Luca Cancelliere sul Risorgimento e le menzogne dei revisionisti, è una grande lectio magistralis sul diritto internazionale (canonico, aggiungo io). Ma da che mondo e mondo la storia, la politica, le relazioni internazionali, sono costituite da “soluzioni ufficiali” di facciata e dalla realtà dei fatti che opera sottobanco; specialmente quando c’è da lavarsi le mani sporche di sangue, per esibirle pulite davanti al mondo intero. Sintetizzando, il lavoro sporco si fa sempre fare ad altri: ciò che fecero gli inglesi (e neanche tanto celatamente).

Cominciamo col dire che se gli storici britannici o irlandesi (dell’Ulster orangista?) dicono che non vi è alcuna prova del coinvolgimento inglese nell’unità d’Italia, affermano, né più e né meno, le stesse cose degli storici italiani. Essere inglese/irlandese ed affermare simili teorie non è sufficiente a ritenerle veritiere. Ne è la prova, la stessa dichiarazione, citata dal Cancelliere, di Lord Russell al Parlamento Britannico il 21 maggio, nella quale affermava che le navi inglesi Argus e Intrepid (provenienti da Malta) al largo di Marsala tre ora prima dell’arrivo della flottiglia garibaldina, erano lì esclusivamente per proteggere gli interessi dei sudditi britannici che avevano attività commerciali in Sicilia. Ma allora il governo inglese sapeva dello sbarco di Garibaldi, e lo sapevano anche i reali sudditi, tanto da chiedere protezione alla Royal Navy. Questo cosa significa?

E’ meramente ovvio, inoltre, che esse rimasero al largo: il fondale era basso e il Lombardo (molto più piccolo) infatti si arenò. Gli equipaggi e i loro comandanti, furono sbarcati dalle scialuppe e se osservate il disegno dello sbarco, eseguito sul posto da un ufficiale inglese, e lo sottolineo, quante navi contate?  Andate a cercare anche i dipinti e le stampe dell’epoca dei “reporters” francesi e inglesi che Garibaldi era solito portare con sé e contate quante sono le camicie rosse a terra. Tuttavia non fu l’esercito regolare inglese a coadiuvare la spedizione garibaldina (Londra si sarebbe ben guardata dall’offrire un appoggio ai Savoia alla luce del sole), ma quello mercenario (legione straniera) sbarcato precedentemente e successivamente a Marsala con circa 40 spedizioni navali (ne parleremo in seguito).

In merito a Palermo, durante il cui assedio Garibaldi avrebbe ricevuto un diniego alla richiesta di munizioni ai comandanti delle due navi britanniche, basti pensare che le provviste (sia belliche che di sostentamento) a bordo delle navi inglesi  dovevano servire a fronteggiare  una possibile controffensiva del nemico (che sarebbe comunque potuta arrivare, nonostante le “tangenti” pagate ai comandanti della Stromboli e della Vesuvio). Questo fu il motivo del “no” ricevuto dal Peppino nazionale. E se Garibaldi aveva finito le munizioni, come prese Palermo?

Se ancora non vi avessi convinto circa il ruolo cruciale dell’Inghilterra, replico al Cancelliere anche quando pone due obiezioni all’influenza britannica sull’unità d’Italia asserendo che “un processo di liberazione [Ma liberati da chi? ndr] nazionale […] deve necessariamente inserirsi nel gioco diplomatico delle potenze” e che i Savoia ricevettero maggiore sostegno dalla Francia e dalla Prussia durante le guerre di indipendenza, che dagli inglesi in tutto l’arco del procedimento unitario.

Cavour, in quegli anni, non fece altro che assecondare un disegno inglese già delineato nel 1815 (ovvero dal Congresso di Vienna) e messo in atto successivamente alla guerra dello zolfo nel 1840. L’occasione capitò in seguito all’esito della prima guerra d’indipendenza (persa malamente dai Savoia). Cavour comprese che per sconfiggere l’Austria, bisognava allearsi con le potenze continentali che avevano interesse nel dichiarargli guerra e negoziare con loro il “compenso” per il contributo sul campo. Ecco il motivo degli accordi di Plombieres (21 luglio 1858) tra Napoleone III e Cavour con i quali si stabilì il futuro assetto della penisola italiana, una volta vinta la guerra contro l’Austria. L’interesse francese, invece, era quello di cancellare l’umiliazione del Congresso di Vienna, portando la Francia ad un grande successo, tale da dimostrare (agli inglesi) che il potere francese era immutato e che anche la Francia poteva candidarsi a baluardo progressista (e non rivoluzionario) sul continente, aiutando l’indipendenza dell’Italia e nonostante gli inglesi osteggiassero questo conflitto.  Tuttavia, quando fu chiaro che l’interesse transalpino era di favorire l’indipendenza italiana, ma non realizzarne l’unità politica, che ne avrebbe fatto svanire la sfera di influenza sulla penisola e l’appoggio dei cattolici francesi dopo l’eventuale caduta dello Stato Pontificio, Cavour combatté al fianco della emergente Prussia la guerra austro-prussiana (da noi spacciata come terza guerra di indipendenza) osteggiata dalla Francia e benedetta, questa volta, da Londra.

L’Inghilterra, nel giro di 50 anni, aveva eliminato una grande rivale come l’Austria, limitato le ambizioni francesi e contribuito alla nascita della grande Prussia che porterà al primo conflitto mondiale. A Londra, a questo punto, mancava solo l’unificazione dell’Italia per eliminarne del tutto le influenze francesi e le ingerenze papali e conquistare finalmente il predominio sul Mediterraneo. Non è forse questa Realpolitik?

Sulla stessa questione, inoltre, il prof. Di Rienzo, molto più autorevole di me, afferma che: “Dopo il 1815, Londra non prese in considerazione la possibilità di un intervento indirizzato a guadagnarle una presenza politico-militare nella Penisola. Il principio della non ingerenza negli affari italiani registrò, tuttavia, una clamorosa eccezione per quello che riguardava il crescente interesse inglese a rafforzare la sua egemonia nel Mediterraneo e quindi a riguadagnare quella posizione di vantaggio, acquisita nel 1806 e ulteriormente incrementatasi poi, tra 1811 e 1815, grazie al protettorato politico-militare instaurato da William Bentick in Sicilia. Protettorato che aveva portato ad ampliare la colonizzazione economica dell’isola già avviata dalla fine del XVIII secolo, poi destinata a irrobustirsi nei decenni seguenti grazie all’attività delle grandi dinastie commerciali dei Woodhouse, degli Ingham, dei Whitaker e di altri mercanti-imprenditori angloamericani. Molto indicativa, a questo riguardo era la presa di posizione del primo ministro, Visconte Castlereagh che, il 21 giugno 1821, aveva ricordato che il dominio diretto o indiretto della Sicilia costituiva, ora come nel passato, un “indispensabile punto d’appoggio” per rendere possibile il controllo dell’Inghilterra sull’Europa meridionale e l’Africa settentrionale. Come, infatti, avrebbe sostenuto Giovanni Aceto, nel volume del 1827, “De la Sicile et de ses rapports avec l’Angleterre”, “quest’isola non rappresenta per l’Inghilterra soltanto un importante avamposto strategico, da preservare, ad ogni costo, da una possibile occupazione della Francia che la minaccia dalle sue coste, ma costituisce anche il centro di tutte le operazioni militari e politiche che il Regno Unito intende intraprendere nell’Italia e nel Mediterraneo”; e ancora: “Naturalmente l’ingerenza inglese si ammantava di pretesti umanitari: la volontà di smantellare il regime dispotico di Ferdinando II e di sostituirlo con un sistema costituzionale e liberale nel quale fossero garantiti i diritti politici e civili,  prendendo a pretesto la denuncia di Gladstone che, nelle “Two Letters to the Earl of Lord Aberdeen” del 1851, aveva definito il regime di Ferdinando II “la negazione di Dio”,

Cancelliere poi si dedica ad analizzare la spedizione garibaldina e i suoi numeri, il tradimento dei borbonici, la camorra, Liborio Romano, Gramsci ed i suoi anacronismi marxisti e l’ “invenzione” di Fenestrelle.

Tenterò, per quanto non sia, purtroppo, mio costume, di essere breve.

I garibaldini, lo riconosce anche Cancelliere, non erano 1000; erano circa 50.000. Francesco Crispi e Rosolino Pilo, “preparatori della rivoluzione in Sicilia”, altri non erano che massoni liberali mazziniani (scusate ma la massoneria era borbonica?) inviati dalla CIA (o dall’MI6 fate voi) dell’epoca (la massoneria inglese) a contrattare con i capi della criminalità locale, il loro sostegno alla spedizione e ad organizzare con loro le prove generali dei moti del 1848. Dico i capi della criminalità locale volutamente, dato che la criminalità organizzata non esisteva ancora sull’isola. Essa fu conseguenza dell’unificazione: I piemontesi la utilizzarono per governare e soggiogare la popolazione,  e la strutturarono in modo tale che ci fosse un capo con il quale “parlare” per far poi eseguire “gli ordini a tutti”. Del resto gli stessi mafiosi da Riina a Jo Bonanno (leggete le dichiarazioni dell’uno e il libro dell’altro – “Uomo d’onore”) lo asseriscono: i capi locali furono assoldati e stipendiati dalla massoneria per appoggiare Garibaldi e per favorirne la conquista dell’isola. Lord Palmerston, primo ministro inglese e capo della massoneria dell’epoca,  gestiva un Secret Fund (rastrellato da Mazzini in esilio a Londra e girato alla loggia Trionfo Ligure) creato ed approvato, dai massoni, esclusivamente per la destabilizzazione del Regno delle Due Sicilie. Il compito della criminalità locale (strettamente legata alla realtà latifondista baronale e  inglese) era quindi creare un clima di caos nell’isola, favorire lo sbarco dei garibaldini per poi appoggiarli in seguito in battaglia. E se non vogliamo credere ai mafiosi, allora crediamo a Rocco Chinnici, uomo delle istituzioni (quelle sane) quando affermava che la mafia è un fenomeno post unitario che precedentemente in Sicilia non esisteva.

Le oltre 40 spedizioni navali, di cui parla il Cancelliere, non portarono in Sicilia 22.000 volontari garibaldini, ma ufficialmente “disertori dell’esercito piemontese”, di fatto soldati dei Savoia, insieme a tutti gli armamenti necessari. Tutte le spedizioni furono “accompagnate” dalle navi inglesi.  Ad accoglierli, come detto, numerosi picciotti, assoldati a 4 tarìe al giorno, i quali erano, a loro volta, parte dei 30.000 “insorti reclutati in Sicilia” ovvero la legione straniera inglese e la legione straniera ungherese: il più feroce esercito mercenario che la storia risorgimentale italiana abbia mai conosciuto; ed erano, come capirete da soli, tutti ferventi patrioti italiani. La sola legione ungherese, costituita con decreto n. 100 del 16 luglio 1860 dal comandante in capo delle forze “Nazionali” in Sicilia generale Garibaldi, arrivò a un organico complessivo di circa 20.000 uomini. Potrei dilungarmi fornendovi alcuni nomi degli ufficiali e dettagliandovi i massacri compiuti da questi personaggi, ma ho promesso di essere breve.

In merito ai tradimenti del cospicuo numero di ufficiali, provenienti dai reggimenti siciliani, tra le fila dell’esercito borbonico (dei quali parlerò in un articolo dedicato) basti dire che non siamo davanti a  “la dimostrazione dello stato di totale disfacimento e corruzione dell’amministrazione borbonica”. Tutt’altro! I tradimenti rafforzano la tesi del complotto organizzato  molti anni prima dell’invasione da parte dell’Inghilterra la quale, potendo contare sull’acquisizione dei brevetti militari borbonici, inserì nell’esercito e nella marina di Sua Maestà, uomini dediti alla corruzione e facili da manovrare.

Uno per tutti: Liborio Romano. Nel Regno delle Due Sicilie, la camorra, giunta a Napoli dalla Spagna come organizzazione criminale segreta, aveva semplici connotazioni settarie,  limitando la sua sfera di influenza ai detenuti nelle carceri, al gioco d’azzardo ed alla prostituzione. In tali ambienti essa imponeva il pagamento di tangenti ed era costantemente perseguita dalla polizia borbonica. I catturati venivano inviati al confino o nelle colonie penali come quella in funzione alle isole Tremiti. L’alleanza con i liberali unitari e il contributo decisivo in favore della conquista piemontese, fece compiere alla camorra il salto di qualità. I suoi esponenti furono arruolati nella polizia e negli apparati dello Stato. Tale processo fu avviato dal liberale e massone Liborio Romano, ultimo prefetto di polizia del Re Francesco II di Borbone nel governo costituzionale del 1860, ma agente di Cavour, e poi primo ministro degli Interni di Garibaldi, dopo il suo ingresso a Napoli.

Il personaggio  Romano, quindi, fu nominato  prefetto non “in tempo di pace”, come sostiene Cancelliere, ma nel 1860 in piena emergenza sbarco di Marsala. Il Re, per salvarsi, emanò la costituzione, indisse le elezioni, concesse un’amnistia, adottò il tricolore con il suo stemma e fece entrare dei massoni/liberali, come Romano, al governo. Fu l’ultima mossa dettata dalla disperazione. Del resto, senza Liborio Romano, che convinse il re ad abbandonare Napoli, Garibaldi non l’avrebbe mai espugnata se non con una dura ed incerta (nelle sorti) battaglia che sarebbe potuta durare anche anni. Liborio Romano, insomma, era uno degli agenti sul libro paga inglese.

“Il Risorgimento è stato l’effetto politico, militare, economico e sociale di un complotto internazionale ordito dall’Inghilterra e dai suoi alleati, ai danni della classi subalterne italiane” e ancora “Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia Meridionale e le Isole, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di Briganti!” (A. Gramsci: “Il Risorgimento” e L’Ordine Nuovo”). Di anacronistico in queste affermazioni di Gramsci può esserci soltanto l’ideologia, ma restano affermazioni basate su fatti accaduti. La rivolta contadina di Bronte, per esempio, non ha niente di marxista, ma è conseguenza delle promesse fatte e non mantenute da parte dei piemontesi (decreto di Garibaldi del 2 giugno 1860). Eccidio o non eccidio, furono condannati e fucilati degli innocenti in modo arbitrario (dal Generale Bixio) e il popolo fu ingannato a favore (indovinate un po?) dei baroni inglesi. A Bronte era forte la contrapposizione fra la nobiltà latifondista rappresentata dalla britannica Ducea di Nelson, proprietà terriera, e la società civile. Lo stesso Di Fiore (Controstoria dell’unità d’Italia), afferma che gli intenti di Garibaldi miravano ad una esemplare punizione volta a dimostrare ai “padroni” inglesi, che ne avevano favorito lo sbarco a Marsala, che nessuno poteva toccare impunemente i loro interessi commerciali e terrieri (Bronte apparteneva agli eredi di Nelson) senza pagarne le conseguenze.

Quando Bixio cominciò la propria inchiesta sui fatti accaduti, larga parte dei responsabili era fuggita altrove; mentre alcuni ufficiali colsero l’occasione per accusare gli avversari politici. Dopo la feroce esecuzione, a monito per la popolazione di Bronte, i corpi delle vittime rimasero esposti ed insepolti per parecchio tempo. Ma non era finita. A questo primo processo sommario ne seguì un altro altrettanto persecutorio e vessatorio nei confronti di coloro che avevano arrecato oltraggio ai grossi proprietari terrieri e agli inglesi della ducea. Il processo che si celebrò presso la Corte di Assise di Catania si concluse nel 1863 con 37 condanne esemplari di cui  25 ergastoli. Giustizia era stata fatta. I poveracci non avrebbero più alzato la testa.” (Ignazio Coppola, “La strage di Bronte dell’Agosto 1860: per non dimenticare le vergogne di Garibaldi e Nino Bixio” – TIMESICILIA)

Ed infine Fenestrelle. Chi la nega, allora nega anche S. Maurizio Canavese, Alessandria, S. Benigno in Genova, Milano, Bergamo, Forte di Priamar presso Savona, Parma, Modena, Bologna, Ascoli Piceno. In tutti questi luoghi, veri e propri lager, per oltre dieci anni, oltre 40.000, furono fatti deliberatamente morire per fame, stenti, maltrattamenti e malattie. Se traccia non ne esiste, è perché il Cancelliere non si è scomodato a cercare. (Continua)

d.A.P.

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