I numeri dell’ultimo rapporto Svimez sono impietosi e fotografano la situazione di un Sud in agonia, condannato a morte e in passiva attesa di esecuzione. È tempo di ribellarsi, di manifestare in piazza, di montare le barricate e di combattere la guerriglia davanti ai palazzi del potere. A Sud il tempo della rivoluzione è adesso … E il Sud invece che fa? Appoggia i suoi aguzzini.

di Paolo Nino Catileri

I numeri dell’ultimo rapporto Svimez sono impietosi e fotografano la situazione di un Sud in agonia, condannato a morte e in passiva attesa di esecuzione.

Un Sud povero, sempre più povero; con buona pace di tutti, infatti, le famiglie meridionali sperimentano una contrazione del proprio reddito pari al 2% (il doppio rispetto al Centro-Nord) e l’incremento dell’occupazione, sebbene maggiore rispetto al resto di Italia, non è sufficiente a risollevare le sorti socioeconomiche di lavoratori e famiglie alle prese, comunque, con precarietà e salari da fame.

Insomma, non è lavoro, quello “creato” dai governi che si sono avvicendati immediatamente prima e subito dopo la pandemia, bensì sfruttamento. Svimez sostiene che la crescita è vincolata all’attuazione del Pnrr, ma abbiamo già visto, soprattutto ben compreso, come il gioco delle tre carte del ministro Fitto ne abbia dirottato le risorse per l’80% al nord, invertendo di fatto le percentuali risultanti dai parametri che avevano permesso all’Italia (se vogliamo definirla così) di ottenere 209 mld.

I cosiddetti lavoratori poveri sono aumentati dal 7,6% al 9,3% in soli 2 anni (2020/2022) e in generale nel 2022, le persone che a Sud vivono in famiglie in condizione di povertà assoluta sono 250.000 in più rispetto al 2020 per un totale di 2,5 milioni. Il Centro-Nord è in controtendenza con – 170.000.

E non finisce qui: la crescita del Pil del Mezzogiorno è stimata allo 0,4% nel 2023 esattamente la metà del Nord, mentre dal punto di vista demografico si preannuncia per il Sud una debacle generazionale. La nostra terra continua a perdere popolazione, soprattutto giovani qualificati i quali a causa di un mercato del lavoro colpevolmente e volutamente mantenuto in condizioni di precarietà e vulnerabilità cercano altrove la propria stabilità economica. A Sud quattro lavoratori su dieci hanno un impiego a termine: è la precarietà uno dei fattori che maggiormente influisce sulla scelta di andarsene. I dati sono impietosi:

  • In venti anni (2002-2021) hanno lasciato il Sud 2,5 mln di persone per l’80% in direzione centro-nord;
  • Sono sempre di più i giovani ad andarsene: 808 mila under 35 di cui 263 mila laureati;
  • Nel 2080 il Sud avrà perso 8 mln di residenti.

Numeri da soluzione finale, da condanna a morte … A Sud, insomma, solo Dead Men Working (parafrasando un noto modo di dire americano) con buona pace dei nostri politici (meridionali s’intende) al soldo dei razzisti settentrionali che abbracciano tutto l’arco parlamentare. E il tratto di strada che ci separa dall’esecuzione si fa sempre più breve.

Tuttavia, sebbene simili dati dovrebbero generare una sommossa popolare, innanzitutto nei giovani, qui si vive invece in una beata quanto beota rassegnazione che ha come ultimo riscontro l’allontanamento dalla politica attiva e il radicarsi del clientelismo come ultima e unica soluzione a tutti i mali della stessa politica.

L’aver accelerato sull’Autonomia Differenziata, l’aver introdotto nella manovra economica le gabbie salariali, l’aver delegato un esponente leghista come Calderoli, condannato per razzismo nei confronti dei meridionali (con tutti gli stratagemmi del caso e della causa) al pari del segretario del suo partito razzista (dicasi Lega Nord) non ha denotato nessun cambiamento nelle coscienze di una popolazione, quella meridionale, sempre più anziana e sempre più abbandonata a sé stessa dal ricambio generazionale che le infime politiche coloniali attirano presso le nebbie padane, manco fosse l’America e il miraggio del sogno americano.

Se poi si considera che nei libri mastri dei partiti (tutti) esiste la voce di spesa “informazione” (o mainstream come si dice oggi) la partita è chiusa. Il Sud non ha più spazio per urlare la causa dei suoi mali (i governi italiani) relegato com’è al ruolo di incapace, inetto, fannullone, mafioso e violento.

Nessuna televisione, ad esempio, ha riportato la presentazione del rapporto Svimez; poche testate regionali o locali hanno parlato della manifestazione contro l’autonomia differenziata del Movimento Equità Territoriale svoltasi lo scorso 2 dicembre a Roma. E la carta stampata fa, se possibile, ancora peggio asservita com’è alle editorie a loro volta sui libri paga dei partiti.

La strategia Sud è chiara, alla stessa stregua della soluzione finale: impoverire una parte del paese drenandone ed assorbendone ogni tipo di risorsa per poi separarsene denigrandolo come indolente e fannullone. A quel punto (non molto lontano nel prossimo futuro) il Sud non avrà più le forze per risollevarsi da solo e morirà. Moriremo così e moriranno anche la nostra cultura, la nostra storia millenaria, le nostre tradizioni: perché l’homo nordicus le avrà cancellate con lo ius primae noctis che esercita da sempre sul popolo meridionale.

Il tempo è dunque ora perché, se non ora (che manca poco al patibolo) quando? È tempo di ribellarsi, di manifestare in piazza, di montare le barricate e di combattere la guerriglia davanti ai palazzi del potere, di conquistare quei diritti presenti, ma mai garantiti, in una Costituzione ridicolizzata da un manipolo di pazzi sclerotici durante tutto l’arco temporale repubblicano. Il mainstream ci definirà terroristi, separatisti e rivoluzionari, ma a Sud è tempo di rivoluzione, adesso … E il Sud invece che fa? Appoggia i suoi aguzzini.