Alla schiera dei revisionisti del revisionismo si aggiunge anche Dino Messina con una nuova pubblicazione in occasione del 160° della colonizzazione del Mezzogiorno.

Non poteva mancare, in occasione del 17 marzo, la pubblicazione di circostanza regolarmente pubblicizzata sui giornali. Ieri il Fatto Quotidiano, domani chissà chi si aggiungerà all’onorevole lista degli adulatori di Dino Messina, giornalista e storico lucano trapiantato a Milano autore di “Italiani per forza”.

Messina rimpingua la lunga schiera dei revisionisti del revisionismo tra i quali Giancristiano Desiderio, Emanuele Felice e Alessandro Barbero (giusto per non farci mancare nessuno) che considerano Fenestrelle un resort sulle Alpi, i Piemontesi paladini della libertà e benefattori di popoli oppressi, oscurandone al contempo 10 anni di feroce repressione contro coloro che a quella imposta “libertà” osarono ribellarsi. New entry nella lista di ascari trapiantati inclini alla narrazione di regime, forse per convenienza, certamente per scelta di posizione, anche Messina fermamente crede che intaccare il mito risorgimentale sia reato di lesa storicità.

Ed ecco, dunque, che a raccontare la favoletta siamo noi, ma semplicemente perché arrivati dopo coloro che hanno scritto la leggenda. Perché di leggenda si tratta e non di storia; perché se noi raccontiamo favole allora altri, eminentemente più bravi, lo hanno fatto prima di noi. Parlo di Alianello, Pellicciari, di Izzo, di Novero. Parlo dell’immenso Zitara, dell’insospettabile Del Boca. Ma siamo sicuri che siano tutti revisionisti? E che non siano travisatori, invece, coloro che li accusano di revisionismo? Questione di punti di vista, certo, ma la verità storica non è mai nelle narrazioni ufficiali, bensì dentro le sue stesse inestricabili trame.

Messina, come altri, si affanna a smontare le tesi revisionistiche, ma perché? Se la storia dell’unificazione è andata davvero come ci insegnano a scuola, perché mai scrivere fiumi di parole per smontare tesi che non avrebbero ragion d’essere? Dovrebbero, per usare un termine modaiolo, essere lasciate all’oblio, abbandonate al loro destino che inevitabilmente le consegnerebbe all’oscurità, se fossero favole. E invece tutt’intorno è un rifiorire di Messina, segno che favole, allora, non sono. Perché non c’è stata solo Fenestrelle, ma anche San Maurizio; non ci sono state solo Pontelandolfo e Casalduni, ma anche Auletta e Montefalcione; ma soprattutto dal 1861 non c’è mai stata l’Italia.

Ed è paradossale che si conduca una lotta senza quartiere contro chi afferma questa storia e questa storia vuole usare per generare una vera unità, mentre si lasciano impuniti coloro che fino a ieri vilipendevano, bruciandola, la bandiera nazionale al grido di padania libera, poi trasformatosi in un altrettanto antiunitario prima il nord attualmente presente sul sito personale di un ministro della Repubblica. Neanche si vuol vedere come l’attuale condizione economica italiana sia direttamente riconducibile a scelte scellerate operate, fin dal 1861, da parte di uno stato piemontese avviato verso il fallimento, se non avesse derubato il popolo meridionale delle sue finanze.

E se Messina e compagnia bella, non volessero credere a noi altri, credano almeno a chi per primo lo ha denunciato ne “L’Italia all’alba del secolo XX” (p. 119) e “Nord e Sud” (p. 30). Si chiamava Francesco Saverio Nitti. Nel 2021 noi non siamo italiani per forza, ma nostro malgrado.

d.A.P.

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