Se c’è una cosa che non sopporto (Gioele Dix direbbe “che mi fa inc…zare come una bestia”) sono i titoli degli articoli come quello di stamattina sul “Il Mattino” firmato da Oscar Giannino: “L’unica strada per rilanciare il Sud”.

Finalmente qualcuno ha trovato la soluzione al posto nostro. Peccato che in 150 e passa anni ci abbiano provato in tanti e tutti abbiano fallito. Detto e scritto, poi, da uno che il 29 giugno di sette anni fa dai microfoni di Radio 24, che annovera tra le sue fila un altro grande estimatore del Sud come Cruciani, affermava che l’unica soluzione per Napoli, all’epoca stretta nella morsa dell’emergenza rifiuti, era l’eruzione del Vesuvio e che i suoi problemi, Napoli, doveva risolverseli da sola, mi fa specie.

L’ILVA era, fino al crollo del ponte Morandi, l’emblematico esempio del fatto che in Italia le privatizzazioni non funzionano

Inutile però rivangare il passato o continuare a sottolineare il fatto che tutti coloro che abbiano provato a risollevare le sorti del Sud, provenissero dall’industrializzato e progredito nord che ci aveva già precedentemente derubato e aveva necessità di reinvestire il maltolto esclusivamente per il proprio profitto. Lasciamo perdere, perché oggi Giannino ha finalmente estratto il coniglio dal cilindro: si chiama ILVA e risiede a Taranto. Il dottor, o forse sarebbe meglio dire signor, Giannino si rallegra del fatto che il governo giallo-verde, nel caso specifico il ministro Di Maio, abbia finalmente imboccato la strada della responsabilità da lui tante e troppe volte invocata, evitando, però, accuratamente, di illustrare la vera storia dell’ILVA e dei ladri (anche loro nord-italiani) che l’hanno messa in ginocchio usufruendo prima dei contributi pubblici e poi abbandonandola a sé stessa. L’ILVA era, fino al crollo del ponte Morandi, l’emblematico esempio del fatto che in Italia le privatizzazioni non funzionano e che se proprio devono avere ragion d’essere, bisognerebbe che lo Stato si riservi sempre una quota di ciò che privatizza, anche minoritaria, o almeno che gli organismi di controllo siano necessariamente statali e autorizzati ad applicare senza distinzioni sanzioni amministrative e penali certe per coloro che non rispettano la legge vigente in materia. Il privato italiano, o meglio nord-italiano, ha come unico interesse il proprio profitto e, se può evitare di spendere, preferisce risparmiare significasse anche mettere in pericolo la vita dei cittadini, a Taranto come a Genova. E anche Genova è coinvolta nel caso ILVA, ma lo vedremo in seguito.

Alla luce degli accordi firmati, comunque si osservi la vicenda, il bicchiere appare mezzo pieno o, se volete, mezzo vuoto.

Soffermandoci su Taranto è necessario riconoscere, alla luce degli accordi firmati, che, comunque si osservi la vicenda, il bicchiere appare mezzo pieno o, se volete, mezzo vuoto. È stata sicuramente scongiurata la chiusura dell’impianto assicurando il mantenimento di tutti gli attuali 10.700 occupati, a fronte dei 13.500 totali (la differenza è attualmente in cassaintegrazione), includendo 200 lavoratori delle affiliate, elettrici ed edili, che invece erano esclusi dallo schema di Calenda che si fermava a quota 10.500. Agli altri 2.800, che sino al 2023 resteranno in carico all’amministrazione straordinaria per occuparsi delle bonifiche, Arcelor-Mittal garantisce la riassunzione a fine piano, senza penalizzazione e con l’articolo 18. Si è scongiurato soprattutto, osserva Giannino, il pagamento di ingenti somme di denaro pubblico per far fronte a penali e disoccupazione garantendo il riassorbimento degli esuberi. Sul versante bonifiche si registra l’impegno della futura proprietà a stringere i tempi per almeno il 50% del totale e a produrre l’eccesso dei 6 milioni di tonnellate di acciaio, alle quali adesso ILVA è vincolata, con metodi, non meglio specificati, che non prevedano processi di carbonizzazione; fin qui il bicchiere mezzo pieno, fermo restando che l’accordo deve essere sottoposto dai sindacati ai lavoratori ai quali spetta l’ultimo grado di giudizio.

Resta tuttavia da registrare la delusione dei cittadini di Taranto nei confronti di Di Maio e del M5S sui quali essi avevano puntato per la chiusura dell’impianto. Ed è su questo che voglio rispondere alla demagogia di Giannino il quale parla senza conoscere la realtà tarantina, senza patire o aver patito le innumerevoli morti nel quartiere Tamburi e non solo lì.

L’impianto pugliese, in realtà, è fondamentale e necessario per l’esistenza di quello di Genova 

Per quanto mi riguarda, se ci tiene così tanto, Giannino l’ILVA se la può interamente portate nella sua amata Torino, perché è facile fare il frocio con il culo degli altri, affermando che essa è l’unica strada per rilanciare il Sud. L’impianto pugliese, in realtà, è fondamentale e necessario per l’esistenza di quello di Genova il quale, chiuse le cokerie e i parchi minerari nel 2002 e dismessa totalmente nel 2005 la produzione a caldo per le troppe morti di tumore nel quartiere di Cornigliano, è stato riconvertito alla lavorazione a freddo e non potrebbe funzionare senza la produzione a caldo di Taranto. Ne è la prova che per Genova non ci saranno esuberi ed è stato riconfermato l’accordo di programma per l’intero organico di 1474 lavoratori (vi invito a leggere gli articoli de Il Borbonico in merito – La Puglia sotto attacco – parte prima e seconda ). Per Genova fu sufficiente un unico studio epidemiologico per cessare la produzione a caldo; a Taranto sono anni che si monitora la situazione e, al 2014, ultimo dato disponibile, le morti per tumore sono 1500 all’anno con un tasso del 26,1% su una popolazione ci circa 200 mila abitanti. Il prezzo è troppo alto da pagare in termini di vite umane, ma a quanto pare Di Maio & C. hanno cambiato prospettiva, o forse, alla luce di quanto sottoscritto da Calenda, il ministro non ha avuto molte alternative tentando di ottenere il meglio possibile nelle peggiori condizioni possibili. Un errore fidarsi dei 5 stelle? Può darsi, ma l’errore madornale, e non si è mai capito il reale motivo, lo ha commesso Calenda rigettando la proposta di CdP e Jindal, che prevedeva la gasificazione dell’impianto, per 400 milioni in meno da dare alle banche creditrici. Poi all’improvviso CdP si sfila dalla cordata e sorge il sospetto, che Di Maio non è stato in grado di provare, che la gara sia stata pilotata a favore di Arcelor-Mittal. Ma questa è storia vecchia. Eppure secondo Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink, la possibilità di fermare gli impianti fuori norma dell’ILVA c’era: in un Position Paper del 4 luglio scorso, presentato al ministero dell’ambiente, Peacelink sostiene che: “abrogando il DPCM del 29 settembre 2017 troverebbe automaticamente applicazione l’art. 29 decies del Codice Ambientale che dispone si provveda “alla revoca dell’autorizzazione e alla chiusura dell’installazione, in caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida e in caso di reiterate violazioni che determinino situazioni di pericolo o di danno per l’ambiente” (d. lgs. n. 152/2006, art. 29 decies, c. 9, lett. c). La legge prevede quindi la CHIUSURA DELL’IMPIANTO non a norma che produce situazioni di pericolo e di danno. Se non vi fossero stati i decreti salva ILVA, lo stabilimento – dopo le varie diffide ricevute in fase ispettiva – sarebbe stato chiuso in virtù del mancato rispetto proprio dell’art. 29 decies del d. lgs. n. 152/2006. In un paese civile sarebbe stata applicata la legge. Dura lex sed lex. Il nuovo Governo non dovrebbe fare altro che ripristinare – di fronte alla conclamata situazione di pericolo sanitario e di danno ambientale – quelle norme di legge che i precedenti governi hanno cambiato in peggio e stravolto con decreti pro-ILVA, suscitando la contrarietà della Commissione Europea che ha già avviato una apposita procedura di infrazione per mancato rispetto della direttiva 75/2010/UE. Il Governo attuale può fare molto in nome della vera legalità. Si tratta solo di ripristinare le norme a difesa dell’ambiente e della vita che i precedenti governi hanno ignominiosamente sospeso”.

E qui casca l’asino, anzi il coniglio, caro Oscar, perché tu stesso affermi che a spingere i ministeri (MISE ed Economia) in una certa direzione sono stati attori terzi che nulla hanno a che vedere con Taranto o con le condizioni economiche nelle quali versa il Sud.

 Tant’è, non se n’è fatto nulla. Intanto ci dobbiamo sorbire Giannino che scrive che in merito all’ILVA e al DPEF “ha pesato la voce crescente di protesta e delusione levatasi dalle imprese del Nord Italia, spiazzate dall’effetto anti occupazione del decreto dignità, e sempre più preoccupate dall’immediata traduzione che un’emergenza spread avrebbe sui maggiori costi degli impieghi bancari per aziende e famiglie”. E qui casca l’asino, anzi il coniglio, caro Oscar, perché tu stesso affermi che a spingere i ministeri (MISE ed Economia) in una certa direzione sono stati attori terzi che nulla hanno a che vedere con Taranto o con le condizioni economiche nelle quali versa il Sud. In nome della ripresa del Sud il Nord ha sempre fatto i suoi porci comodi, sprecando denaro pubblico e lasciando intere popolazioni a mani vuote, dopo aver creato false aspettative; la strada per rilanciare il Sud non è unica, ma sono molteplici. Tu parli di attirare i capitali esteri, ma la soluzione non è L’ILVA. Il Sud va rilanciato attraverso infrastrutture, strade, ponti, ferrovie, porti, aeroporti, comunicazioni, informatizzazione. Queste opere attirano capitali esteri, perché i nostri bilanci non ci permettono di edificarle, né la nostra industria privata (dal metalmeccanico all’ICT, passando per l’edilizia civile) ha le risorse per operare in tal senso. Allora perché non invitare imprese estere a costruirle, con una minima partecipazione di pubblico e privato, affidando loro poi la concessione pro quota di quanto realizzato al fine di ripagare l’investimento e ottenere utili nel breve periodo? Si potrebbe invogliarle con un’aliquota di imposta agevolata per un periodo pari al pareggio dell’investimento per poi passare a quelle tradizionali. Sarebbero comunque ulteriori entrate per l’erario, senza contare le trattenute sugli stipendi dei lavoratori.  Ti sei mai chiesto cosa sarebbe il porto di Gioia Tauro con una rete di strade e ferrovie che lo colleghino al resto d’Italia e del Meridione? Immagini cosa significhi per le imprese meridionali l’alta velocità tra Napoli e Bari e Napoli e Reggio Calabria? O Matera collegata attraverso una ferrovia? O i porti di Taranto, Napoli e Salerno automatizzati come quello di Rotterdam dove il sistema di automazione è stato sviluppato da italiani (meridionali)? Ti sei mai chiesto cosa significhi tutto questo per le Università del Sud che ogni anno devono assistere all’esodo di giovani matricole verso il Nord perché, tra le altre motivazioni non marginali, i collegamenti al Sud non permettono spostamenti rapidi? Le infrastrutture aumentano l’occupazione, creano domanda e mettono in moto l’economia. E se non possiamo farle noi ben venga lo straniero (anche perché ne ospitiamo già tanti, irregolari e nullafacenti che scappano dai centri di accoglienza dopo essere stati sbarcati – vedi caso Diciotti). Il ritorno in termini economici sarebbe comunque elevato.

Invece no, dobbiamo leggere sui giornali le teorie vecchie e stantie di cervelli prezzolati che fanno fortuna sulle disgrazie altrui. I veri cervelli, per loro fortuna e nostra disgrazia, caro Giannino, sono andati tutti via dal Sud e la gente come te ne è responsabile!          

d.A.P.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

2 × 4 =