I partiti fanno a gara per “avvicinare” il mondo meridionalista, ma in fondo per tutti loro il meridionalismo è solo un cavallo di Troia per entrare nelle grazie dell’elettorato meridionale.

di Paolo Nino Catileri

Il meridionalismo è diventato l’ultima frontiera politica (o forse l’ultima moda) dei partiti, i quali lo modellano e plasmano a seconda delle proprie esigenze: quelli che al sud non bisogna chiedere un euro in più, quelli che si offendono ad essere chiamati partito del Sud, quelli che da nord chiamano il Sud e quelli che da Sud chiamano il nord.

Non c’è che dire, il meridionalista è ambito da tutti ed è facile capire il perché. Il Sud è ormai politicamente un territorio inesplorato, dove l’alta percentuale di astensionismo alle urne ingolosirebbe chiunque e chiunque sarebbe disposto a diventare almeno per un’ora “sudista oltranzista” se questo significasse dieci voti in più.

Non è la prima volta e non sarà l’ultima. La storia elettorale italiana è piena di promesse cadute poi nel vuoto o accantonate in un angolo dopo le elezioni (vinte o perse non fa differenza). E siccome pare proprio che i meridionali abbiano mangiato la foglia, i politici devono per forza di cose attingere a qualcosa di “nuovo” che, per usare un’espressione cara agli italiani efficienti, stuzzichi il sedere meridionale ad alzarsi dal divano per recarsi a votare.

L’occasione è prossima ed è quella delle europee. Un test probante per comprendere la reale forza dei partiti in campo che su quella base dovranno poi lavorare per le politiche e, magari, per togliere precocemente il terreno da sotto i piedi del peggior governo di sempre.

E allora vai di meridionalismo per tutti, ma alle loro condizioni. Perché in fondo il meridionalista puzza.

Ed è una puzza difficile da mandar via, quella del meridionalista vero, perché scevra da compromessi. Egli, infatti, sa bene cosa vuole e come ottenerlo, così come il panorama politico italiano sa altrettanto bene che da solo egli non ha le forze necessarie per imporsi.

E qui casca l’asino. Hanno bisogno l’uno dell’altro, ma a togliersi la puzza di dosso, per entrare nelle grazie dei partitoni nazionali, deve essere il meridionalista. Egli, insomma, dovrebbe lavarsi per bene e far scivolare nel sapone le sue “pretese” (diritti negati, giustizia sociale, welfare, infrastrutture, istruzione etc.), la sua consapevolezza (quella di essere colonia interna sfruttata da coloro che si proclamano efficienti con i soldi altrui) e la sua intransigenza che gli conferisce una particolare chiarezza rispetto agli obiettivi da perseguire senza possibilità di negoziazione.

La partita è tutta qui, cari amici lettori: i partitoni in cerca di voti a Sud chiedono al meridionalista di lavarsi per riscuotere il premio ed entrare a far parte del gioco (e in molti, troppi, lo fanno con quantità di sapone differenti) trasformandosi in un cavallo di Troia elettorale, mentre il meridionalista, quello vero, di contro resiste al richiamo del “pulito” e lotta per far valere le sue ragioni senza se e senza ma.

Le compagini meridionaliste (troppe per i miei gusti) si trovano così a dover “trattare” in condizioni di estrema debolezza, disposte, loro, ad usare un po’ di sapone per accontentare chi la puzza invece non la vuol proprio sentire. E così, un po’ alla volta, perdono i pezzi (quelli disposti a farsi la doccia per un tozzo di pane) e finiscono per indebolirsi ancora di più.  

Tuttavia, se il meridionalista puzza troppo per i gusti raffinati dei politicanti odierni, l’unica alternativa concreta è che quella puzza invada tutto il Sud e da Sud arrivi poi ad insozzare i palazzi governativi o almeno contagi alcuni esponenti meridionali che abbiano coscienza (se ancora esistono) all’interno dei partitoni nord centrici. Non importa come (e quando) avvenga, se per riunione dei movimenti meridionalisti o se perché uno dei partitoni decide di sporcarsi finalmente sul serio le mani con il Sud. L’importante è che avvenga. E per fortuna c’è già chi sta lavorando per questo.

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